venerdì 17 giugno 2016

Il contagio della telemedicina



A scuola di telemedicina. Già, perché ovviamente per far funzionare i consulti a distanza la bacchetta magica non serve e nemmeno i consigli degli sciamani. Così non resta che studiare. Dream e Ght organizzano per questo due o tre corsi di formazione l'anno, uno sempre in Europa e almeno uno in Africa per mettere gli operatori in grado di far funzionare il sistema. 
Per chi non mi ha seguito finora dico che Dream e Ght si occupano, in modi diversi, ma omogenei e complementari, di salute principalmente in Africa. Dream nasce per contrastare il Hiv e ha poi allargato il suo raggio di azione, mentre il 'core' Ght è sempre stata la telemedicina, consulti e cure a distanza con medici volontari che offrono la loro assistenza dall'Italia, ma poi non di rado finiscono per appassionarsi così tanto di Africa che non resistono alla tentazione di passare un po' di tempo sul campo. Si chiama mal d'Africa e non si è trovata mai la cura. Per fortuna. 


Tant'è che in questi giorni sono a Roma alcuni infermieri, semplici e specializzati,  e medici africani per il corso di telemedicina. Che si articola in varie specialità: cardiologia, malattie infettive, dermatologia, pediatria, medicina interna. Dipende anche un po' dai medici disponibili al consulto a distanza. Gli allievi sono di ogni età, donne e uomini, religiosi e laici, treccine elaborate con stoffe e perline e veli. Prendono molto sul serio il corso. Alcuni l'impianto di telemedicina ce l'hanno già, altri sono aspiranti. Guardandoli, vedo sempre con la mente le condizioni precarie nelle quali operano nel fondo dell'Africa, con capanne o edifici sbilenchi, la connessione a internet affannosa in velocità e capricciosa in costanza. La difficoltà di comunicare tra i dialetti africani, che sono mille e mille, e la traduzione in un qualsivoglia linguaggio europeo, italiano, francese, inglese o portoghese. Tra gli “opening soon” ci sono il Camerun, la Nigeria e il Mozambico. 


“Mi chiamo Rispah e ho 33 anni. Vivo a Nairobi, ma vengo dalla regione del Tharaka, una zona secca e rurale i piedi del monte Kenia. Sono clinical officer, un po' più che infermiere, un po' meno di medico, ma mi sto laureando. Lavoro in Dream da dieci anni”. Rispah è keniota. Alta, magra, decisamente bella ed elegante. Sa il fatto suo, si esprime in un ottimo inglese, calmo e sorridente come lei. L'ho incontrata in una pausa del corso di aggiornamento all'ospedale San Gallicano. Dopo qualche anno nella sua regione d'origine, un posto che mi descrivono nel mezzo del nulla con un clima impossibile, Rispah è arrivata a Nairobi dove lavora e studia. Ha cominciato con la lotta al Hiv, soprattutto nella sua trasmissione dalle madri ai neonati. Un combattimento continuo, sia con la malattia che per la prevenzione. “Abbiamo perso molti bambini -racconta- ma pi le cose sono migliorate e ora l'HIV non è più il nemico dell'emergenza. È bello vedere le persone malate stare meglio e dare loro speranza. Le madri sono felici quando i loro bambini guariscono e non di rado chiamano i loro figli come chi li ha salvati in segno di gratitudine. La cosa bellissima è che mentre la sanità pubblica manca completamente di umanità, sei un numero a cui dare medicine e 'avanti un altro', da noi si instaurano rapporti umani bellissimi. Si chiacchiera, ci si confida, si diventa amici quasi come parte della terapia. È una famiglia. E poi è più facile parlare con gli amici che con i medici. Così noi siamo aiutati anche nelle diagnosi da rapporti così informali”. Un approccio alla medicina inusuale e di successo. “Adesso che il Hiv è sotto controllo -prosegue Rispah- abbiamo il tempo di dedicarci alle malattie non comunicabili come diabete, ipertensione, cardiopatie, malattie che erano assai trascurate e che ora stiamo insegnando a non sottovalutare. Noi stessi stiamo studiando e la possibilità di interloquire con i medici italiani ci aiuta moltissimo. Quando tornerò a Nairobi, nella nostra riunione settimanale per mettere in comune esperienze e conoscenze, racconterò quanto ho imparato in Italia. E mi ci vorranno parecchi incontri”. 


C'è poi Patrick, 30 anni, medico nigeriano che lavora ad Abuja, la capitale, un milione e mezzo di abitanti dichiarati e chissà quanti altri milioni fuori controllo. Patrick non ha difficoltà ad ammettere la sua iniziale diffidenza per un centro medico di volontari: “di solito sono postacci. Credevo fossero tutti poveri, sporchi, maltenuti e senza mezzi, quando mi hanno chiamato ho rifiutato più volte. Mi hanno detto 'vieni a vedere', alla fine sono andato e sono rimasto. Abbiamo molti pazienti che sono casi difficili. Davvero talvolta io non so cosa fare. Non vogliamo mandarli via, ma è difficile sapere cosa è giusto. Adesso, sono felice Di sapere di avere qualcuno con cui parlare per un consulto. Già in questa settimana di corso ho imparato moltissimo, ma posso sempre migliorare e ampliare le mie conoscenze per far star bene le persone. La consistenza può e deve sempre espandersi. Io conosco i miei limiti, ma sono anche sicuro che posso abbattere alcuni muri di ignoranza, mia e degli altri. Perche la conoscenza non è statica, anzi.”. 
E questa è l'Africa giovane. Un bell'esempio di persone istruite, che lavorano con entusiasmo per il loro paese e dialogano con l'Occidente. Senza che nessuno ci lucri sopra. Con l'obiettivo di salvare vite, dissipare l'ignoranza e migliorare le condizioni di vita, senza invadere oltremodo cultura e stile di vita. Se questo modello riuscisse a diffondersi, a contagiare l'Africa e l'Europa forse anche la terribile disperazione delle migrazioni di massa potrebbe conoscere sollievo e magari anche nel tempo controtendenza? 

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